E mi portarono in Dead Row (nel braccio della morte),
Nonostante fossi per lo più innocente (I am nearly wholly innocente)
Ma non ho paura di morire (precisa subito il condannato)..
Intanto però caldo e freddo, sente.
E in una tazza sbrecciata il volto di Gesù, vede.
Le crudeli ruote del carretto dei pasti
(the meal trolley’s wicked wheels)
Un osso uncinato (presagio di morte)
From my food.
Frattanto prima e durante l’essere posto sul Trono delle Misericordia (Mercy Seat), la sedia elettrica, colei che porrà fine all’angoscia a ogni cosa (misericordiosa davvero nell’annientamento della vergogna, del dubbio, della gogna); si dichiara innocente, ma non lo dice mai esplicitamente, eppure ha detto la verità e comunque occhio per occhio e dente per dente
(An eye for an eye/A tooth for tooth).
L’importante poi è farla finita con questo interrogatorio
(I’m yearning to be done with all this measuring of truth).
E tanto non ha paura di morire, facciamola finita subito.
And anyway I told the truth
And I’m not afraid to die…
Segnali di morte e disperazione però si strutturano sotto I suoi occhi: le mura sembrano emanazioni,
nel loro essere oscuro espressionismo interiore (They are sick breath gathering at my hind).
Intanto, però tra i forzati si sentono racconti sulla vita di Cristo,
del suo essere un umile falegname, non a caso morì sulla Croce, una fine quasi per affinità…
Ma la divagazione storico-religiosa svanisce subito per considerazioni più esistenzialiste, vale a dire la bivalenza umana tra bene e male
ma questa dualità sono a long-suffering shackle (dei ceppi).
Per questo, basta dubbio, basta libero arbitrio,
basta dunque giudizio, si deve finire con questa macchina della verità,
tanto la paura di morire svanisce when there is nothing to lose.
E pazienza se non c’erano prove
O un movente (a motive why).
Intanto il Trono della misericordia fuma
E my blood is boiling (sta bollendo)
And I’m spoiling (e sto rovinando lo spettacolo con tutti questi pensieri)
A life for a life
And truth for truth
(E pazienza se non c’era nè movenete nè prove,
ma Giustizia e Verità,
ben valgono una vita).
And anyway I told the truth
Non ero colpevole
But I’m afraid I told a lie
(ma non ne sono nemmeno sicuro)….
Ci sarebbe molto da dire su “The mercy seat” rilasciata da Nick Cave & The Bad Seeds, con l’album Tender Prey del 1988.
Innanzittutto, l’impianto sonoro, lunghissimo 7:07min, con una frase ritmica reiterata ossessivamente ed estesa, fino ad uno spaventoso crescendo, con Cave che canta freneticamente come uno che stia bruciando sul rogo.
Ma è molto interessante anche il contenuto del testo, tra riferimenti letterari kafkiani, su tutti il Processo (in particolare non si sa nulla sulla “colpa” di questo condannato). Per il quale sembra che la sofferenza più atroce sia proprio l’atto dell’essere giudicato e nel quale sino all’ultimo nonostante la sua sostanziale innocenza, sorge il dubbio se fosse veramente del tutto innocente.
In fondo dentro di noi, e sotto la luce di Dio, la Mercy Seat, che era il coperchio dell’Arca dell’Alleanza, ogni uomo non sarebbe innocente, nella sua dualità tra bene e male, un bene forse solo a cui si può aspirare ma un male che invece è il fulcro essenziale del nostro essere (Su cosa intendere per bene o male il discorso si farebbe troppo lungo, qui limitiamolo all’aspetto più cristiano o religioso in generale).
E poi dopo tutto, non è preferibile forse morire, nonostante il dichiararsi innocenti, nononostante (o proprio perché si dice di non aver paura, nonostante poi i fatti lo contraddicano, con l’attaccamento del condannato ad ogni piccolo dettaglio di vita vissuta, che assume rilevanza infinita) non ci sia bene più alto, a cui si è più attaccati, della vita e di ogni suo piccolo pezzetto, di fronte ad un giudizio assoluto, che ci chiede “MA TU SEI DAVVERO INNOCENTE??” E il non saperlo e non poter mentire assolutamente è la condizione che supera la morte per il totale terrore in cui fa precipitare il malcapitato sottoposto a giudizio.
Per questo The Mercy Seat non è semplicemente un capolavoro musicale di rock alternativo gotico, già solo questo assicurato dal crescendo sonoro e tematico (veicolato da un Cave grandemente ispirato) che riproduce alla perfezione la disperazione del condannato a morte assoluto: ma merita proprio in virtù del suo non essere una mera cronostoria circa la condizione di un condannato, di essere annoverato oltre le nubi eterne dell’Olimpo del rock più sublime, nel cielo del vero misticismo, quello che si interroga sulla reale natura del bene e del male, nonché sul senso ultimo della vita.
I “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, sono un romanzo tutt’altro che religioso o formativo, almeno nel senso paternalistico e patetico del termine. Pensate ad esempio all’andata di Renzo dall’Avvocato azzecca-garbugli, su consiglio di Agnese, futura suocera del giovane filatore di seta.
Renzo Tramaglino, così come raffigurato dell’edizione illustrata del 1940
L’avvocato si dimostra subito disponibilissimo, avendo evidentemente scambiato il povero ragazzo di Lecco, come di un Bravaccio che cercasse una qualche protezione. Peccato che non-appena la cruda verità inizia a rivelarsi, l’Avvocato si acciglia tanto da spedire fuori in strada il povero Promesso.
Dottore Azzecca-garbugli, 1940
Disperati allora i ragazzi e la povera massaia si rivolgono a Fra’ Cristoforo per andare a parlare direttamente con Don Rodrigo, che voleva impedire a Don Abbondio, intanto minacciato da due bravacci, di celebrare quel matrimonio, perché aveva stabilito che la verginella doveva essere sua.
Fra’ Cristoforo a sua volta era stato figlio di un ricco mercante, ma non erta mai stato accettato dall’aristocrazia locale, allora dopo un incidente, in cui un suo amico e un suo rivale rimangono uccisi, si converte e decise di diventare cappuccino e dedicare la sua vita alla causa degli ultimi.
Fra’ Cristoforo, 1940
Fra’ Cristoforo viene accettato nella bicocca di Rodrigo (nobiluccio ma di antico lignaggio spagnolo) e viene fatto entrare al desinare del gruppetto dominato dal suddetto signore, dal cugino di esso, Il Conte Attilio, l’istigatore del ratto di Lucia, del Podestà e dell’Avvocatuccio dei garbugli.
A quei tempi questi signorotti avevano interesse ad ammaliarsi i Cappuccini, che potevano costituire utili roccaforti coi loro monasteri in caso di persecuzioni violente o giudiziarie, per questo Cristoforo, è fu trattato con una certa clemenza, seppur sempre con una certa altezzosità canzonatoria, e persino ascoltato in privato.
Ma il candore della conversazione dura poco non appena Rodrigo capisce che dovrebbe abbandonare la sua preda, al ché il frate vola via, scagliando però prima una maledizione che ha più vena profetica che portato malefico, visto l’indole celestiale del sant’uomo.
Don Rodrigo, 1840
Fatta questa non brevissima premessa, Manzoni raffigura la realtà milanese, nello specifico lecchese della prima metà del ‘600 quando il Ducato di Milano era di dominio spagnolo, ma va al di là del tempo. Raffigura la semplicità e la cristianità autentica della gente del popolo. Renzo e Lucia chiedono solo di convolare a nozze, senza facili via di fuga, ma in maniera del tutto legale.
Un signore iroso, quanto insuperbito dall’alto lignaggio, e da servitori violenti, i Bravi (veri e propri camorristi), detta legge sul territorio, intaccandone le consuetudini, corrompendo, e travalicando gli umili per mera scommessa o arbitrio (prendere quella Lucia, come promesso al Conte Attilio, che era a Lecco per mero scopo lubrico); le autorità ecclesiali invece erano divise tra il quieto vivere (Don Abbondio) e la militanza attiva di Fra Cristoforo e del Cardinale Borromeo.
Alberto Sordi, nei panni di don Abbondio, nella fiction televisiva Rai 1989: “Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro.»
o la convivenza (Gertrude, la Monaca di Monza):
“Due occhi, neri neri anch’essi si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pieta’; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarlo il travaglio di un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti.“
Le autorità pubbliche invece più che ad emanare “Grida”, una sorta di decreti del tempo (celebre quello inapplicabile sul prezzo del pane) amministravano di fatto tutt’altro che imparzialmente, con un occhio di riguardo sempre per gli amici di salotto (il Podestà, l’Avvocato, o le Vecchie Casate: sta qui la critica di Manzoni all’Ancien Regim, ma quello Albertino sarà poi molto diverso?).
Manzoni, quindi sembra descrivere più che un’Italia storica, un’Italica astorica, in cui il potere è stato sempre al di sopra delle legge e delle morale vigente, anche se tali regole scritte o consuetudinarie vanno comunque salvaguardate, in modo ipocrita e forse necessario, per non far degenerare il tutto in un homo homini lupus.
Thomas Hobbes, Il Lieviatiano, 1651 : l’opera più celebre del filoso inglese che teorizza lo stato assoluto, come unico rimedio per impedire la guerra civile permanente tra gli uomini. Egli infatti si rifaceva al detto plautiano (lupus est homo homini, non homo), che allude all’egoismo umano, assunto da Hobbes, per designare lo stato di natura in cui gli uomini, vittime delle proprie brame, si combattono permanentemente l’un l’altro per sopravvivere.
Ovviamente le leggi agli ultimi servono veramente poco, almeno in caso di scontro con il Don di turno, in quel caso ci si può solo affidare alla Provvidenza, perché giustizia da sé non se ne può ottenere, dato che i Signori hanno dalla loro parte gli amministratori della legge (i Podestà e i birri), e i difensori dalle leggi (gli avvocati). Si può solo pregare quindi e rigar dritti, lasciando perdere estemporanee rivolte popolari, che una volta sedate finiscono sempre male per il povero idealista (Si pensi alla rivolta del Pane in cui Renzo si ritrova impelagato quasi per caso, e dove nonostante si comporti nobilmente per salvare dalla lapidazione Sua Eccellenza, viene messo al bando e deve rifugiarsi a Bergamo per non finire sotto la forca; il pessimismo Verghiano qui sembra ben anticipato).
Alessandro Manzoni, Francesco Hayez, 1941
L’ingenuità e l’apparentemente ottimismo Manzoniano si fermano qui e appaiono veramente poca cosa, riguardo al superamento soprannaturale, o provvidenziale, di tutte le difficoltà nell’ultima parte del romanzo. Tuttavia. non è detto che Il Manzoni con un buon finale voglia solo accontentare il lettore, al contrario ne dedurrei un paternalistico intento formativo: gli umili, possono difendersi solo attraverso i pochi mezzi leciti che hanno a disposizione, e ciò per tre regioni:
La forze dei Forti/Superbi, sono illimitate, quindi agni atto di reazione può solo essere peggiorativo.
Una buona condotta può non aggravare le pene inflitte e suscitare l’aiuto di qualche anima pia (Fra Cristoforo e il Cardinale Borromeo).
Qualora tutto andasse perduto, non ci si macchierebbe di ulteriori peccati e si salverebbe l’anima, come d’altra parte già fa intendere Dante nel terzo canto della Terza Cantica, dove chiede a Piccarda se non le seccasse essere nella parte iniziale del cielo, quello della Luna, e non sulle più alte sfere celesti. Essa, infatti, era stata rapita dal monastero, rubata di fatto a Dio…
Terzo Canto della Terza Cantica, il Canto della Luna, quando Dante incontra Piccarda…
…son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda (la Luna, la sfera Celeste più lontana dal Nono Cielo) 51
E questa sorte che par giù cotanto (questa sorte che sembra bassa), però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto (mancarono in qualcosa nel loro voto)… 57
…Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi più alto loco per più vedere e per più farvi amici?». [Ma non desiderate di più, chiede Dante di questa tarda spera?] 63
«Frate, la nostra volontà quieta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. [Rispose di no Piccarda, perché la loro volontò è assolutamente conforme a quella di dio] 72
Se disiassimo esser più superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; 75
che vedrai non capere in questi giri, s’essere in carità è qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. 78
Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia, per ch’una fansi nostre voglie stesse; 81
sì che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piace com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia 84
[Perché qui tutto conduce e tutto ci fa volere essere conforme a colui che tutto move].
E ‘n la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si move (essa è quel mare verso il quale si muove tutto) ciò ch’ella cria o che natura face». 87
al mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. 105
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. [nonostante Piccarda fu rapita e smonacata nel 1285 su iniziativa di Corso, per darla in moglie ad un tanghero ma facoltosissimo, un tal Rossellino, col quale per un certo periodo fu costretta, si desume, a vivere nel peccato) 108
La risposta di Piccarda è illuminante perché spiega come ad un atto di superbia sopraffattrice (il suo rapimento) sia più consono una non conformazione passiva, spirituale, a quell’atto violentatore e prevaricatore. Bisogna quindi sempre soggiacere, anzi desiderare ardentemente la Misericordia Divina, anche quando sembra cedere al male, rendo anime pie vittime passive.
Per questo io non credo molto alla Provvidenza divina nel senso classico, cioè come ad un meccanismo, che aiuta veramente i giusti, come un deux ex machina (La peste di Milano) che risolve situazioni, consolando e regalando un bel finale ad un nuovo pubblico borghese, una sorta di una longa manus del mercato regolatore e riparatore che rimette tutto a posto; ma penso che il senso primo dell’opera di Manzoni sia un atto estatico nei confronti della fede e dei valori che la fede ispira, senza negare la lotta, ma senza sconfinare mai nel delitto (e certo che c’è qualcuno che di Delitto ne parlò in una sua celeberrima opera un paio di decenni dopo, dimostrandone di fatto l’inutilità, un certo epilettico di San Pietroburgo …).
F. M. Dostoevkskij, Delitto e Castigo, 1866
Perché se all’iniquo e al potente è tutto permesso (su questa Terra, forse…), ciò non vale per il povero e l’offeso, che non ha mezzi per difendersi. Un po’ come per il Verga e il suo ideale dell’ostrica, secondo cui il popolano, ho come unico guscio contro lo sferzare delle onde, il rispetto dei valori tradizionali e l’antica comunità di origine.
Giovanni Verga
La Religiosità Manzoniana, o gli antichi valori di Aci Trezza, sembrano quindi esprimere, almeno per noi lettori moderni, società eterne, lontane, dalle forze distruttrici del Tempo (le leggi del mercato, la stessa modernità) o degli Uomini Cacciatori, dei veri e propri principi regolatori ed equilibranti delle disimmetrie umane e socio-economiche.
Reazionari forse in senso politico, essi furono, con le loro idee, ma da intendersi in senso non meramente politico o partitico, in senso umanitario: erano infatti consapevoli circa l’idealità di un mondo antico da proteggere (Pasolini, molto più tardì, docet), con i suoi valori, i suoi saperi, le sue consuetudini, abbattuti troppo velocemente, senza attenta analisi sotto i colpi dei buldozer prima liberal-repubblicani e poi naziuonal-socialisti.