
La Divina Commedia si divide in 3 cantiche (il numero della Trinità è il 3), ognuna composta da 33 canti (gli anni di Cristo quando fu ucciso), quindi in totale da 99 canti più 1. Il canto in eccesso è il prologo dell’Inferno, che ci fornisce già la struttura e il tema dell’opera. 100, numero magico per i pitagorici e per la cabala, numero che rappresenta il tutto e la perfezione, la massima espressione di Dio e dell’Universo, ciò che Dante aspirava a descrivere nella sua immensa creazione poetica.
Il prologo inizia con il pellegrino che si ritrova come desto da un sogno in una selva, sperduto, in un mondo intricato e senza luce. Ma risvegliatosi dall’incubo, che appare comunque realissimo, riprende padronanza e volgendo lo sguardo in alto e vedendo un colle illuminato, capisce che una via di uscita c’è. L’opera potrebbe finire di già, o essere risolta in poche righe, e oggi non avremmo la più grande creazione mai elaborata da un Cristiano.
L’uomo Dante, il poeta Dante, il sapiente Dante, lo studioso bramoso, vuole tirare le fila della sua vita, e vuole regalarci tutto ciò che sa e ha imparato attraverso gli studi infiniti dei classici, e attraverso la conoscenza diretta o indiretta di fatti di cronaca, che hanno formato la sua idea del mondo, e quindi il suo di mondo (che è anche il nostro). Non può dunque certo fermarsi.
Il Sommo Poeta, in maniera eccezionalmente innovativa unisce conoscenze teologiche e profane (la politica del suo tempo, la cronaca, addirittura le sue vicende personali). E’ quindi un’opera parzialmente autobiografica, come ogni opera moderna (e la Divina commedia fu la prima opera attuale), ma che vuole superare i suoi confini e abbracciare ogni mare, ogni fiume e ogni stella, al di là di essa: dal particolare all’universale direbbe un certo Hegel, seppur non mancano passi, dei veri e propri trattatelli, che sono certamente le parti più anacronistiche dell’opera, pur non mancando di interesse, sia perché testimoniano il sapere dell’epoca tolemaica agli occhi di un colto del suo tempo, sia perché testimoniano come Dante abbia tentato una modernissima miscellanea tra poesia, commedia, epica, tragedia e tutte le branche del sapere, dalla teologia alla politica, dalla giurisprudenza alla scienza. Ricercando, insomma, un sapere totale.

Altro tema fondamentale, che emerge subito, già dal prologo, è il “bello stile” che egli adotterà nel corso dell’intera opera. Ovvero non si rifarà mai al latino, che certo conosceva eccelsamente, e di cui però attingerà solo per creare strutture linguistiche e morfologiche, ma al linguaggio allora parlato, che era un miscuglio di toscano, di provenzale, di siciliano, insomma una sintesi di tutto ciò che poi ha formato l’italiano moderno, in cui la Commedia dantesca ha ruolo supremo e di pietra angolare.
Eppure, Dante parla addirittura di Dio e di temi altissimi, ma sceglie una lingua accessibile e comune. Il perché resta un po’ un mistero, anche se molti sventolano certezze a tal proposito. Per i più è che Dante voleva essere capito da una larga platea. Per i molti è che trattandosi di Commedia, come egli stesso la definì non era necessario il latino. Ma il termine commedia, sembra più uno specchietto per le allodole, una falsa via, una via di fuga, uno scudo, per un’opera che più tragica non si può, che potrebbe definirsi certamente epica, con Dante eroe, ma un eroe moderno, quasi un inetto.
Un uomo dalle mille paure, dai mille vizi (solo così potrebbe comprendere tanto bene e provare compassione o ira per i dannati che di volta in volta incontrò nel viaggio).
Egli però è troppo grande per accontentarsi di descrivere in maniera fotografica, una realtà povera o eccelsa così come tramandata dai saperi teologali, decide di rivolgere invece tutte le sue forze al sapere assoluto, che sono prima le scienze naturali, i grandi del passato, e poi ancora insoddisfatto, perché col puro intelletto non si può ambire alla pura gioia, rivolgersi a Dio, al Primo Amore, e come lo fa? Appellandosi al suo primo amore, ovvero a Beatrice, la donna che tanto amò in terra, ma di un amore cavalleresco, definiremmo platonico, l’unico amore davvero perfetto per un Cristiano come Dante che mira all’assoluta salvezza (seppur non giudicò sempre negativamente l’amore carnale, come ogni altro peccato, perché fattore primario per la salvezza per Dante non era tanto non peccare, quanto piuttosto la dimenticanza di Dio e del Primo Bene).
A tal proposito infatti sarebbero stati nella vicenda tante le anime che per uno sguardo bigotto avrebbero meritato il mondo degli inferi e che ritroviamo nella lunga ascesa invece in via di purificazione, nel fuoco, sulle piagge del Monte Purgatorio, o addirittura già in Paradiso (si pensi all’imperatore pagano Traiano, che fermò il suo esercito per dare giustizia ad una vedova e per questo si guadagnò il Paradiso) o addirittura il vegliardo Catone, che pur morendo suicida, <<ma per la causa della libertà>>, è custode del Purgatorio, mondo già di salvezza, in contrapposizione al terribile Caronte, il traghettatore delle anime prave dell’Acheronte.

Non dobbiamo però stupirci di questo lassismo o di queste apparenti contraddizioni nei giudizi danteschi, sono proprio la forza dell’opera (lo scavare nelle profondità, andare oltre le apparenze del sentire comune). Ma non sarà sempre così prodigo il Nostro, soprattutto nei confronti dei nemici (personali, politici, della fede), a cui non lesinerà mai tormenti e umiliazioni di ogni genere.
Dante insomma non nega la realtà, ovvero i suoi sentimenti (seppur sempre filtrati dalla ragione, dalle leggi morali e della fede). Come non nega mai la compassione. In questo sta la straordinarietà dell’opera e forse il più alto lascito che fa alla letteratura di ispirazione cristiana, instillando il seme della misericordia, non ipocrita o intellettuale, ma reale, in cui si ha consapevolezza, quasi viscerale, delle bassezze in cui uomo o donna, che sia, possono scivolare (seppur va detto che a parte Francesca, all’Inferno donne non se ne vedono, e anche Paolo e Francesca, nonostante siano posti lontani da Dio, nella loro pena sembrano assurgere alla loro passione, ovvero al loro godimento passionale, per l’eternità).
Con Dante quindi nascono due tratti fondamentali per la nostra letteratura. Un nuovo linguaggio. E un nuovo stile: quello realistico, quello che parte dal vero, quello che sarà poi riproposto in epoca risorgimentale dal Manzoni o poi da Verga, ma che non toccheranno mai le vette stilistiche e di sapere sconfinato del mondo e dell’uomo e poeta Dante. Il primo e il più grande italiano, eppur morto in esilio…
Ma ci sarebbe stata una Divina Commedia con un Dante già prospero e glorioso in vita, in quella Florenza, che non lo amò, che lo scacciò e che egli ripagò con tutto il suo astio, disprezzo, insomma con tutto l’amore di un amante deluso?
Ma in fondo cosa fu un esilio di pochi anni se Dante dopo 700 anni è ancora tra noi? In fondo cosa è una vita umana in ambito temporale, rapportata all’eterno. Io sono certo che questa consapevolezza, fu la maggiore consolazione che il Sommo Poeta ebbe, negli ultimi e amari anni della sua vita, sprone che lo condusse a finire un’opera infinita e difficilissima:
La consapevolezza che il Veltro fosse lui, il Veltro morale (e poetico) che così tanto agognava per rimettere ordine in quella “umile Italia”, vituperata dalle divisioni interne e dal disinteresse dell’Impero e dalle bramosie lupesche del papato.
