Il Don Giovanni diceva: <<Chi sono tu non saprai>>. Interessante, affermazione, in cui svelava la sua vera essenza, ovvero il nulla, l’acqua, quella sostanza da cui fu generato, che non avendo forma, può solo riflette, ineffabile come una tomba. Perché il Don Giovanni non è che un fantasma, un dannato che ripete all’infinito, in maniera ossessiva, come le anime prave dell’Inferno di Dante, il motivo della propria lontananza dalla primaria fonte di amore, Dio creatore, la madre.
Egli vive in un luogo dove questo amore non è giunto, e quindi il suo tratto è l’odio, l’invidia e il risentimento. Che eppur maschera, imbellettandosi, truccandosi di mille volti, con parrucchini e cipria, per nascondere il proprio disfacimento fisico e morale.
La sua brama di conquista, in realtà non è altro che la ripetizione ossessiva e banale, per nulla creativa (seppur si nasconda dietro una parvenza di brillantezza, perché egli ama incantare, chi lo ascolta), di soggiogare l’altrui per dimostrare a sé stesso il proprio valore. Un calmierante, la conquista, che come ogni sostanza tranquillante (narcotici da Narciso, ovvero “colui che dorme”, cioè che è incosciente), ha durata breve. Mero lenitivo per un vuoto inestinguibile, un amore non ricevuto che gli mancò, come la poppa assetato ad un bimbo venuto da poco al mondo.
Tuttavia, la conquista per egli, ha due funzioni separate ma che discendono dalla medesima fonte, l’assenza e il sentimento di indegnità che ne consegue. Attraverso la seduzione, infatti, può da una parte, dimostrare il suo valore, perché solo chi è amato vale davvero (l’amore, o meglio l’ammirazione, per egli è infatti indispensabile, come il latte per un bambino).

In secondo luogo, l’essere amato permette attraverso un giuoco rifrattivo, di contemplare la propria ombra, ovvero il proprio sentimento di indegnità (ad essere amato), e quindi odiando tale immagine (ma non comprendo come Narciso che quella non è altro che la visione stereotipata eppur vera, di sé stesso), la allontana, la violenta, l’abbandona in fine, perché non riesce ad abbracciarla, non riesce ad amarla, non riesce a farla sua (perché per egli l’amore è mero possesso, senza sentimento – un sentimento che passa inevitabilmente per un coinvolgimento emotivo reale, impossibile, per chi non sente nessuna emozione, ma solo l’eco della propria voce).
Tale catena ossessiva (la catena della ripetizione compulsiva del trauma interiore che egli vive, che mette in scena, per la propria contemplazione interiore, perché egli ha solo vista e nessun altro senso), tuttavia, della conquista e del disprezzo (che può portare, o all’abbandono, o alla violenza sadica – De Sade, in fondo non è altro che il lato oscuro del luminoso Don Giovanni), potrà però spezzarsi, nel momento in cui l’avvertimento dato da Tiresia l’indovino, alla madre di Narciso (la ninfa Liliriope), si realizzerà : “Narciso vivrà se non conoscerà sè stesso”.
Tale avvenimento traumatico avverà solo nel momento in cui non sarà amato, o meglio quando il suo bisogno di confermare continuamente il proprio valore, sarà impedita da un grave fallimento (grave, nel senso che lui lo penserà così). Allora l’inganno rischierà di essere svelato. Allora egli si struggerà di dolore. Penserà per la prima volta di amare. Idealizzerà (immaginandolo) chi non lo ama (perché egli non può conoscere nulla davvero), e emergerà tutto il proprio sentimento di indegnità e il disprezzo di sé. Questo aprirà uno squarcio nella tela, ed emergerà il mostro Narciso, il Dorian Grey invecchiato e decrepito.
Allora l’amor di sé sparirà e il Don Giovanni moderno Narciso morirà.

2. In termini psicanalitici, potremmo pensare che la morte di Narciso/Don Giovanni non sia inevitabilmente la morte del paziente, ma anzi può costituire la fine della sindrome che lo affligge. Essa sarà sempre occultata ai suoi occhi se il successo arriverà sempre, così da vivere senza mai aver guardato negli occhi la propria ombra. Una vita di successi probabilmente, ma una vita colma di nulla, di assenza, di distacco, di gelo, di odio e distruzione. Una vita insomma socialmente pericolosa o dannosa, ma anche incosciente, avvolta di nebbia, sognata, ma mai sentita. Insomma, una vita vissuta senza essere mai nato.
Ma non è detto che nemmeno un fallimento o i fallimenti dei narcisisti, così chiamiamoli, svelato l’inganno letterario e del mito, si traducano in una redenzione e in rinascita. Al contrario la morte può non significare altro che il proprio annientamento (ulteriore) e quindi uno sprofondamento, questa volta nella fossa dell’odio di sé e del mondo. Aspettando una nuova fase, se arriverà, di grandiosità e di [ri]conquista (appare evidente come la sindrome bipolare possa essere una semplice manifestazione esteriore di un serio disturbo della sfera narcisistica della personalità).
Ma se tale terribile crisi sarà riportata alle sue reali cause, e non spostata sugli altri, colpevoli, o somatizzata in odio del proprio sé (cadendo dunque in uno stato depressivo, che comunque, latente, è il tratto sommerso di ogni narcisista, covert o scoperto che sia), ma alle reali cause (la ferita narcisistica) si potrebbe avviare un processo di guarigione.
Il narcisista infatti soffre del “complesso della madre morta”. Ovvero non si è sentito davvero amato nelle prime fasi della sua vita da una madre depressa che ha spento in maniera del tutto inconsapevole, l’investimento affettivo sul figlio. Una madre che si occupa magari in maniera ineccepibile del bambino, a cui nessuno potrebbe rimproverare nulla, ma che lo fa senza gioia né vitalità.
Un distacco emotivo che crea un buco nel bambino, un vuoto emozionale, in cui crescerà un sentimento di indegnità, ovvero il senso di non meritare amore, perché non si vale abbastanza. Il valore di sé allora diverrà l’unica bussola con la quale orientarsi, un metro, l’unità di misura, con cui il bambino adulto valuterà la propria esistenza, traendone bilanci, mai davvero soddisfacenti, in una rincorsa infinità. Perché non si può colmare il vuoto con i numeri, come infinite sono le frazioni di una unità.
A ciò inoltre si può aggiungere, aggravando il quadro, un padre violento e in fuga (o assente), come quel fiume Cefiso, che violentò Liriope, la madre di Narciso, aggiungendo quindi un tratto sadico al bambino innocente, eppur con un futuro tutt’altro che incolpevole.
Bisogna dunque interrogarsi, se oggi, la politica, l’economia, la narrazione dominante, i social, non incoraggino tali impulsi narcisistici, o le personalità narcisistiche, valorizzando dunque dei soggetti malati, e quindi pericolosi, per sé, ma soprattutto per la società (il caso Trump ne appare la dimostrazione più eclatante e recente, seppur personalità narcisistiche con forti tratti sadici, purtroppo hanno costellato la storia dell’umanità).