Dostoevskij e il senso della vita

Oggi è chiaro che Dostoevskij non fosse solo uno straordinario scrittore, ma un vero e proprio filosofo, ovvero che nonostante la polifonia dei suoi romanzi, anzi proprio grazie ad essa, egli avesse in sé un nucleo forte di pensiero.

Un pensiero attualissimo aggiungeremo, che profetizzò i rischi del futuro immanente, come quel Nietzsche tanto diverso negli esiti, eppure tanto simile nell’analisi dell’uomo moderno.

Sarebbe troppo semplice ricordare come Dostoevskij, avesse sentito con grande anticipo il rischio di società iperazionalizzate, ovvero le società totalitarie, condannandone i pericoli, prima ancora che esse fossero realisticamente e politicamente possibili. Ma evidentemente già ne scorgeva il germe quando ne “Le memorie dal sottosuolo” esponeva l’utopia del “palazzo di cristallo” o del “formicaio”, cioè di un modello di società finita per sempre.

Ciò per Dostoevskij era tuttavia una mera utopia, perché l’uomo è un essere infinito, libero e indefinibile. Quindi ogni tentativo di fermare la storia o meglio di superarla, per poi sclerotizzare un sistema necessario, non poteva che essere un fallimento o peggio un pericolo gravissimo, che avrebbe irreparabilmente danneggiato il nucleo più intimo di ogni uomo e di ogni popolo, con le sue culture e le proprie specificità, ovvero contraddizioni interne.

Ma la condanna di Dostoevskij non fu semplicemente politica. La sua era una visione molto più radicale, che riguardava l’essenza autentica di ogni uomo. Dostoevskij riconosceva che l’uomo moderno avesse perso il Senso della propria esistenza dopo la perdita della fede in Dio. Ciò valeva per la verità soprattutto per i ceti più colti, per l’intellighenzia, ma il virus rischiava dall’alto di contagiare tutto il corpo sociale.

Come sappiamo il pensatore che prima di ogni altro ha saputo accogliere l’annuncio della “morte di Dio” fu Nietzsche nella “Gaia Scienza”. Morto Dio l’uomo ha cercato di rispondere a questo terremoto epocale o attraverso le leggi della ragione, ovvero mediante il positivismo che era una evoluzione dell’epoca illuministica, o al contrario mediante l’oscurantismo, il dogmatismo o correnti irrazionalistiche di varia natura.

Dostoevskij era naturalmente acerrimo oppositore di entrambi questi filoni. Perché i primi non potevano che portare o allo scetticismo o al meccanicismo, e i secondi avevano la pretesa di inglobare attraverso atti regressivi astorici la natura per definizione infinita dell’uomo.

In realtà queste tendenze non sono che meri momenti di una dialettica oscillante tra la messa in discussione e la ritrovata verità. Tra il peccato e la redenzione. Entrambi sono necessari e solo attraverso di essi l’uomo davvero vive. Per Dostoevskij ogni altra soluzione o è illusoria o peggio pericolosa mortalmente perché rischia di perdere l’uomo. Noi riaffermiamo il nostro Io più autentico proprio nell’atto della ricerca.

Tuttavia, l’uomo può sempre rifiutare quest’assunzione di libertà, perché troppo gravosa e stancante. E per questo si insinuano ideologie riposanti o anche terrorifiche, come quella del Grande Inquisitore. Ai cui antipodi però sta il Cristo e il suo insegnamento.

Per Cristo il senso della vita sta nel donarsi e nell’amore per il prossimo. Viceversa, il male sta nel chiudersi in sé stessi e vedere gli altri solo come nemici o competitori, un po’ come avviene nel regno animale, il regno della necessità per antonomasia, dove vince il più forte, in una battaglia senza fine. Il regno di Cristo invece è quello dell’amore come atto di libertà, perchè disinteressato e quindi divino per antonomasia.

Per concludere, Dostoevskij è stato certamente uno dei più grandi narratori di ogni tempo. Oggi sembra probabilmente inattuale il suo cristianesimo ortodosso, ma non è per niente ingenuo. Il lumicino del suo pensiero infatti continua a illuminare la galassia di noi scettici moderni. E’ vero che siamo liberi. Ma siamo sicuri di esserlo veramente. Di stare dando un senso alle nostre vite? O siamo chiusi nel formicaio?

Gli Ignavi, ovvero, questi sciagurati, che mai non fur vivi

Il terzo canto infernale stacca completamente dai primi due, che possono essere identificati, il primo, come prologo dell’intera opera, il secondo, come prologo della prima Cantica.

La porta dell’inferno, con su scritta l’epigrafe (come d’uso nelle città medievali) terrorizzante <<Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate>>

Dante e Virgilio  si apprestano dunque a varcare la porta infernale per entrare <<nella città dell’etterno dolore>>, ma prima leggono, a ‘mo di sinistra epigrafe e ammonimento ,rafforzato da un’anafora irrevocabile di tre periodi, che da lì non si può più uscire una volta entrati, cioè una volta che si è morti senza essersi ricongiunti col Signore Iddio.

Essa “ci parla”. Fu Dio a crearla (<<l’alto fattore>>), il grande architetto, e prima di essa non fu realizzato nulla se non la materia e gli Angeli. Ma poi proprio a causa della ribellione di Lucifero, Dio dovette creare l’inferno, per scacciare esso con gli altri ribelli, insieme al coro degli angeli che non presero parte né con Dio né contro Dio (saranno questi i precursori storici e ideali degli ignavi dei vari “Don Abbondio”, che per paura, per pusillanimità o per mero interesse personale, decisero di non scegliere).

Apparentemente un piccolo peccato, per noi uomini liquidi moderni. Per Dante, invece è uno dei più gravi peccati, perché il non scegliere, o il cambiare casacca a secondo degli interessi, che poi è la stessa cosa di una mancanza di scelta, è il non giovarsi del dono più prezioso paterno (e quindi anche più meritevole di essere non solo custodito, ma attuato) del libero arbitrio. Così peculiare, perché è il gesto di un padre onnipotente, che autonomamente decide, per “Sommo Amore”, di dar fiducia alle sue creature, affinchè possano esprimere liberamente, ma anche meritarsi il Suo amore. Basterà seguire le regole che Egli ha dato e i suoi insegnamenti, così oltre che per paura di Giustizia, ma anche e soprattutto per disio di fare il bene, alla fine di una vita brevissima rispetto all’eternità, per ricongiungersi con Esso in Cielo basterà aver fiducia nel sommo padrone e quindi credere in sé stessi mediante l’uso dell’intelletto, della buona morale, della fede, così da morire beati, o comunque ricongiunti con la Luce che tutto illumina.

ignavi tormentati dagli insetti

Gli ignavi invece per pusillanimità, per debolezza del credere in loro stessi e quindi a Dio e alla sua opera provvidenziale, diriggono le loro azioni non assesecondando il principio informatore dell’etterno, ma la contingenza terrena, che costituisce nemmeno un puntino, rispetto a ciò che lì attende una volta conclusa la prima vita. Tuttavia per scarsa fede essi mettono sé stessi al primo posto e non il Padre Creatore, cercando di tutelare solo e soprattutto il loro contingente interesse, non prendendo a tal fine mai una posizione definita e stabile, dimenticando dunque quegli insegnamenti e quel senso di giustizia che ogni uomo ha in sé, per dirigere al bene le proprie azioni.

Gente così per il Dante morale non può dunque che essere punita severamente. In primo, saranno subito dimenticati dopo la morte. In secundo, non vedranno mai la luce e lo spettacolo celestiale del “Sommo Amore”, meritando invece la dannazione etterna, non accettati però nemmeno nella casa infernale, come ospiti sgraditi che passeranno l’eternità in un vestibolo orrendo, fosco e puzzolente, posto prima dell’Acheronte, disdegnati sia da Dio che dall’Inferno.

Essi in compenso però subiranno i tormentii di fastidiosi tafani, rappresentazione visiva dell’agitazione interiore, che già provarono in vita, quando portati di qua e di là dall’ansietà della loro sicurezza e del loro tornaconto, e punti sempre, senza pace e senza amici dalle circostanze o da chi li vuole portare di qua o di là, sono condannati ad inseguire instancabilmente un vessillo, simbolo di quella idea, o di quelle fazioni, che in vita cambiarono sempre, in virtù del proprio tornaconto, o meglio per mancanza di una veritade interiorie più forte, capace di farli trascendere da questa condizione posta in contraddizione con Dio.

Gli ignavi che corrono dietro al vessillo che si muove senza pace

Naturalmente il più famoso esponente di questa masnada di sub-dannati è Papa Celestino, che fece il famosissimo gran rifiuto, spogliandosi del panno pontificio perché non avvezzo, a suo dire, a quella vita. Dante invece imputa a quella scelta sciagurata ragioni di viltà e pusallanimità, con l’aggravante che deludendo le aspettative di tutti coloro che avevano fatto affidamento su di lui per riformare la paccanimosa Chiesa, spalancò la strada al tanto odiato, da Dante, Bonifacio VIII, corruttore di quella Istituzione rappresentante del cielo che oramai si era fatta meretrice e ispiratrice di ogni nefandezza, più che di opera pedagogica.

Celestino V comunque è solo accennato e lo si può identificare proprio per il termine che Dante usò per descriverlo <<colui che fece il gran rifiuto>>, cioè la persona che disdegno il grandissimo onore di guidare la Chiesa di Dio, l’istituzione terrena più importante insieme all’Impero, che in connubio con esso avrebbe dovuto assicurare pace e armonia ad un’Italia humilis, sconvolta dalla corruzione morale e da guerre fratricide.

Celestino V

Non è un caso che Dante non si fermi a parlargli o che non lo identifichi, come invece farà con le altre ombre che via via incontrerà nel corso del suo viaggio. Infatti, Dante, drammaturgicamene coerente con i periodi precedenti, regala al Papa dei pochi mesi, quell’oblio che gli ignavi meritano, e in qualche modo già in terra ricercarono (né lo nomina, nè gli rivolge una parola), perché di questi codardi, di questi vili, di questi pusillanimi, <<che mai non fur vivi>>, solo una cosa si può fare, come sentenzia la guida Virgilio: non curarsi di loro, ma guardare e passare. Appunto, come se nemmeno esistessero, o fossero mai vissuti (almeno nel senso alto del termine).

Prologo a Dante, il primo e il più grande italiano della storia

Dante che si ritrova solo nella selva oscura

La Divina Commedia si divide in 3 cantiche (il numero della Trinità è il 3), ognuna composta da 33 canti (gli anni di Cristo quando fu ucciso), quindi in totale da 99 canti più 1. Il canto in eccesso è il prologo dell’Inferno, che ci fornisce già la struttura e il tema dell’opera. 100, numero magico per i pitagorici e per la cabala, numero che rappresenta il tutto e la perfezione, la massima espressione di Dio e dell’Universo, ciò che Dante aspirava a descrivere nella sua immensa creazione poetica.

Il prologo inizia con il pellegrino che si ritrova come desto da un sogno in una selva, sperduto, in un mondo intricato e senza luce. Ma risvegliatosi dall’incubo, che appare comunque realissimo, riprende padronanza e volgendo lo sguardo in alto e vedendo un colle illuminato, capisce che una via di uscita c’è. L’opera potrebbe finire di già, o essere risolta in poche righe, e oggi non avremmo la più grande creazione mai elaborata da un Cristiano.

L’uomo Dante, il poeta Dante, il sapiente Dante, lo studioso bramoso, vuole tirare le fila della sua vita, e vuole regalarci tutto ciò che sa e ha imparato attraverso gli studi infiniti dei classici, e attraverso la conoscenza diretta o indiretta di fatti di cronaca, che hanno formato la sua idea del mondo, e quindi il suo di mondo (che è anche il nostro). Non può dunque certo fermarsi.

Il Sommo Poeta, in maniera eccezionalmente innovativa unisce conoscenze teologiche e profane (la politica del suo tempo, la cronaca, addirittura le sue vicende personali). E’ quindi un’opera parzialmente autobiografica, come ogni opera moderna (e la Divina commedia fu la prima opera attuale), ma che vuole superare i suoi confini e abbracciare ogni mare, ogni fiume e ogni stella, al di là di essa: dal particolare all’universale direbbe un certo Hegel, seppur non mancano passi, dei veri e propri trattatelli, che sono certamente le parti più anacronistiche dell’opera, pur non mancando di interesse, sia perché testimoniano il sapere dell’epoca tolemaica agli occhi di un colto del suo tempo, sia perché testimoniano come Dante abbia tentato una modernissima miscellanea tra poesia, commedia, epica, tragedia e tutte le branche del sapere, dalla teologia alla politica, dalla giurisprudenza alla scienza. Ricercando, insomma, un sapere totale.

Schema dell’universo Tolemaico

Altro tema fondamentale, che emerge subito, già dal prologo, è il “bello stile” che egli adotterà nel corso dell’intera opera. Ovvero non si rifarà mai al latino, che certo conosceva eccelsamente, e di cui però attingerà solo per creare strutture linguistiche e morfologiche, ma al linguaggio allora parlato, che era un miscuglio di toscano, di provenzale, di siciliano, insomma una sintesi di tutto ciò che poi ha formato l’italiano moderno, in cui la Commedia dantesca ha ruolo supremo e di pietra angolare.

Eppure, Dante parla addirittura di Dio e di temi altissimi, ma sceglie una lingua accessibile e comune. Il perché resta un po’ un mistero, anche se molti sventolano certezze a tal proposito. Per i più è che Dante voleva essere capito da una larga platea. Per i molti è che trattandosi di Commedia, come egli stesso la definì non era necessario il latino. Ma il termine commedia, sembra più uno specchietto per le allodole, una falsa via, una via di fuga, uno scudo, per un’opera che più tragica non si può, che potrebbe definirsi certamente epica, con Dante eroe, ma un eroe moderno, quasi un inetto.

Un uomo dalle mille paure, dai mille vizi (solo così potrebbe comprendere tanto bene e provare compassione o ira per i dannati che di volta in volta incontrò nel viaggio).

Egli però è troppo grande per accontentarsi di descrivere in maniera fotografica, una realtà povera o eccelsa così come tramandata dai saperi teologali, decide di rivolgere invece tutte le sue forze al sapere assoluto, che sono prima le scienze naturali, i grandi del passato, e poi ancora insoddisfatto, perché col puro intelletto non si può ambire alla pura gioia, rivolgersi a Dio, al Primo Amore, e come lo fa? Appellandosi al suo primo amore, ovvero a Beatrice, la donna che tanto amò in terra, ma di un amore cavalleresco, definiremmo platonico, l’unico amore davvero perfetto per un Cristiano come Dante che mira all’assoluta salvezza (seppur non giudicò sempre negativamente l’amore carnale, come ogni altro peccato, perché fattore primario per la salvezza per Dante non era tanto non peccare, quanto piuttosto la dimenticanza di Dio e del Primo Bene).

A tal proposito infatti sarebbero stati nella vicenda tante le anime che per uno sguardo bigotto avrebbero meritato il mondo degli inferi e che ritroviamo nella lunga ascesa invece in via di purificazione, nel fuoco, sulle piagge del Monte Purgatorio, o addirittura già in Paradiso (si pensi all’imperatore pagano Traiano, che fermò il suo esercito per dare giustizia ad una vedova e per questo si guadagnò il Paradiso) o addirittura il vegliardo Catone, che pur morendo suicida, <<ma per la causa della libertà>>, è custode del Purgatorio, mondo già di salvezza, in contrapposizione al terribile Caronte, il traghettatore delle anime prave dell’Acheronte.

Dante si prostra umile, di fronte a Catone, nel primo canto del Purgatorio, il Grande Vegliardo, morto suicida per amore della libertà

Non dobbiamo però stupirci di questo lassismo o di queste apparenti contraddizioni nei giudizi danteschi, sono proprio la forza dell’opera (lo scavare nelle profondità, andare oltre le apparenze del sentire comune). Ma non sarà sempre così prodigo il Nostro, soprattutto nei confronti dei nemici (personali, politici, della fede), a cui non lesinerà mai tormenti e umiliazioni di ogni genere.

Dante insomma non nega la realtà, ovvero i suoi sentimenti (seppur sempre filtrati dalla ragione, dalle leggi morali e della fede). Come non nega mai la compassione. In questo sta la straordinarietà dell’opera e forse il più alto lascito che fa alla letteratura di ispirazione cristiana, instillando il seme della misericordia, non ipocrita o intellettuale, ma reale, in cui si ha consapevolezza, quasi viscerale, delle bassezze in cui uomo o donna, che sia, possono scivolare (seppur va detto che a parte Francesca, all’Inferno donne non se ne vedono, e anche Paolo e Francesca, nonostante siano posti lontani da Dio, nella loro pena sembrano assurgere alla loro passione, ovvero al loro godimento passionale, per l’eternità).

Con Dante quindi nascono due tratti fondamentali per la nostra letteratura. Un nuovo linguaggio. E un nuovo stile: quello realistico, quello che parte dal vero, quello che sarà poi riproposto in epoca risorgimentale dal Manzoni o poi da Verga, ma che non toccheranno mai le vette stilistiche e di sapere sconfinato del mondo e dell’uomo e poeta Dante. Il primo e il più grande italiano, eppur morto in esilio…

Ma ci sarebbe stata una Divina Commedia con un Dante già prospero e glorioso in vita, in quella Florenza, che non lo amò, che lo scacciò e che egli ripagò con tutto il suo astio, disprezzo, insomma con tutto l’amore di un amante deluso?

Ma in fondo cosa fu un esilio di pochi anni se Dante dopo 700 anni è ancora tra noi? In fondo cosa è una vita umana in ambito temporale, rapportata all’eterno. Io sono certo che questa consapevolezza, fu la maggiore consolazione che il Sommo Poeta ebbe, negli ultimi e amari anni della sua vita, sprone che lo condusse a finire un’opera infinita e difficilissima:

La consapevolezza che il Veltro fosse lui, il Veltro morale (e poetico) che così tanto agognava per rimettere ordine in quella “umile Italia”, vituperata dalle divisioni interne e dal disinteresse dell’Impero e dalle bramosie lupesche del papato.

Una breve disamina introduttiva dell'opera dantesca. Lo stile è libero, così come i temi sono affrontati in maniera non schematica, ma molto personale.
Dante è fermato nel suo cammino da tre bestie, simbolo dei tre vizi peggiori dell’uomo. La Lonza, ovvero la lussuria (o Firenze). Il Leone, la superbia (o l’Impero). La Lupa ovvero la cupidigia (o il Papato)