La leggenda amara di Rosso Malpelo

La leggenda di Rosso Malpelo, pubblicata per la prima volta nel 1880, è una delle novelle più famose e insieme innovative del Verga, genio indiscusso del Verismo italiano.

La storia narra di un bambino che lavora in una zolfatara del catanese, in condizioni terribili e disumanizzanti. Il padre di Malpelo aveva sempre lavorato nella cava, così che il bambino fin da subito lo segue in questo mondo infernale.

Non a caso egli ne porta i colori, il rosso, per cui è schernito dagli altri lavoratori perché cattivo e birbante, come testimoniato dal suo cromatismo (infatti per il portato popolare è cattivo chi è rosso di capelli).

Invece è chiaro sin da subito che nonostante il pregiudizio che lo stigmatizza e lo accompagna nell’arco delle sue estenuanti giornate, dove subisce derisioni e maltrattamenti, il bambino nasconde un animo nobile.

Egli segue giudiziosamente il padre, lavora e consegna i suoi denari alla famiglia, nemmeno si ribella alle angherie, sfogandosi col povero asino, l’unico soggetto a lui sottoposto, essendo anch’esso considerato poco più che un animale.

Infatti, viene accusato di ogni cosa sfortunata che avviene nella cava: è un diverso e quindi deve essere il responsabile di ogni male.

Verga illustra la triste parabola del bambino attraverso la tecnica dello straniamento, della regressione e del discorso indiretto libero. Tali tecniche narrative permettono all’autore di non far sentire mai la sua voce in maniera onnisciente e moralizzante, ma in maniera ellittica e poetica, facendo emergere così la verità residualmente, attraverso l’assurdità del coro che si accanisce contro Malpelo.

Verga, però, mirabilmente, fa emergere, attraverso la tecnica della regressione e dell’indiretto libero (“erlebte Rede”), la vera natura del bambino, che seppur apparentemente violenta e brutale, si dimostra in diverse occasioni sensibile e altruista, diversamente dalla comunità, che lo bullizza, e non lo comprende perché lo giudica attraverso le lenti del pregiudizio.

Verga quindi non descrive la miniera, come un mondo di lavoratori solidali. Ma lo fa senza i filtri del uomo mondano con aspirazioni filantropiche e moraleggianti, svelando invece l’intrinseca violenza, di un mondo semplice e per questo paradigmatico e <<vero>>.

La leggenda di Malpelo rappresenta dunque l triste destino dei “diversi” che in virtù di un dato insignificante, come il colore dei capelli, della pelle (o di una diversa nazionalità) sono esclusi e discriminati.

Malpelo inoltre può rappresentare la condizione dell’artista, del nobile d’animo, che si trova solo ed isolato in un mondo dove le leggi economiche spadroneggiano e condizionano i rapporti sociali, a prescindere dalla nobiltà dei singoli, perchè ciò che conta è solo la forza, e anche la moralità e la nobiltà d’animo da essa dipendono, a prescindere se esse siano vere o presunte, come testimoniato dalla voce narrante che si fa portatrice del sentire comune, che travisa completamente il comportamento del bambino, causando uno straniamento non indifferente nel lettore attento:

“Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto…[che] egli tormentava in mille modi…[eppur se a quello] toccava un lavoro troppo pesante e piagniucolava…Malpelo prima lo picchiava e lo sgridava, ma se Ranocchio continuava gli dava una mano…oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiare asciutto…[lui che] era avvezzo a tutto, agli scapaccioni, alle pedate…a vedersi ingiuriato e beffato da tutti…anche a digiunare era avvezzo…non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto…e si prendeva i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo (è questo il concetto del nemico oggettivo utilizzato da Hanna Arendt nella sua opera summa, “Le origini del Totalitarismo”)”.

La grandezza di questo racconto sta quindi proprio nella sua universalità. Infatti, nonostante parli di una realtà come quella della solfatara, che almeno in Occidente, non esiste più, il senso più profondo della novella rimane immutato perchè archetipico cioè nella stigmatizzazione del diverso, che paga non per le birbanterie vere o presunte che egli mette in atto, ma proprio per l’essere percepito come un intruso, per la sua “essenza”, in una comunità che si coalizza proprio grazie ad esso, in reazione all’elemento estraneo, con cui ha un rapporto dialettico che però non si risolve in una mediazione, ma nella distruzione dello straniero, che viene espulso e disperso, come nella tragica conclusione della novella:

“Una volta si doveva esplorare un passaggio…e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di manodopera nel cavar la rena (necessità economica, razionalizzazione del lavoro), …ma…c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più,…[fu quindi mandato il bambino nella pericolosa opera, che tanto non aveva nessuno, perciò gli affidavano sempre i lavori più rischiosi]…così si persero persin le ossa di Malpelo [che si perse nell’esplorazione nei meandri  del sottosuolo…].”

Il finale è dunque pessimistico e sembra esprimere la visione del Verga. Il singolo non può che essere sconfitto se isolato dal gruppo di appartenenza. Si pensi alla fine di ‘Ntoni Malavoglia che dopo il delitto commesso, frutto del suo voler uscire dalla comunità familiare e dalla comunità di appartenenza, fatta di pesca e bisogni semplici, non può più rientrare nella casa del Nespolo ed è condannato a vagare per le vie del mondo senza meta; o a Mastro Don Gesualdo che grazie alla volontà all’abnegazione diventa ricchissimo, ma perdendo contatto con le sue umili origine, muore solo e abbandonato.

E’ già presente quindi nell’80 l’ideale dell’ostrica che il Verga aveva teorizzato in “Fantasticheria” quando nella chiusura della novella (programmatica circa la sua opera successiva) dice:

“Allorquando uno di quei piccoli, o più debole [perché diverso, cioè Malpelo], o più incauto o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto (‘Ntoni Malavoglia), o per brama di meglio [Gesualdo], o per curiosità di conoscere il mondo (sempre ‘Ntoni, dimostrando una primitiva attitudine artistica, mentre in Gesualdo l’attitudine a migliorarsi è prettamente materialistica e borghese), il mondo da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui (la famiglia Malavoglia)”.

“Per le ostriche [infatti] (il famoso ideale verghiano dell’ostrica) l’argomento più interessante deve essere quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio”.

Per Verga quindi al di fuori della comunità di appartenenza non ci può essere salvezza. Essa solo può tutelare dalle insidie del progresso, dal vivere sociale, o dai rovesci della fortuna, che possono precipitare ogni individuo che si allontana dal suo scoglio.

Per questo chi è solo perché isolato per stigma e origine (questo è il caso di Malpelo), o per condotta al di fuori dai codici sociali di appartenenza (‘Ntoni e Gesualdo), è destinato ad essere sgominato da forze ineluttabili, necessarie e naturali.

Verga, in tutto ciò, è ovviamente dalla parte dei “Vinti”, di cui tacitamente ammira il coraggio e anche la nobiltà (persino Gesualdo non è un personaggio prettamente negativo), ma registra che la loro sconfitta è inevitabile, e in questo si staglia il pessimismo di cui si fa portavoce.

Il positivismo ottocentesco Verghiano è quindi solo nella ricerca di un metodo stilistico oggettivo, ma è lungi dall’essere contenutistico, ponendosi scetticamente riguardo all’ideologia dell’etica borghese “dell’uom che si fa da sé”, ma ne sottolinea al contrariol’ipocrisia morale, svelando come la rettitudine valoriale sia un requisito del tutto secondario e successivo, rispetto alle leggi del mercato e all’interesse personale.