Gli Ignavi, ovvero, questi sciagurati, che mai non fur vivi

Il terzo canto infernale stacca completamente dai primi due, che possono essere identificati, il primo, come prologo dell’intera opera, il secondo, come prologo della prima Cantica.

La porta dell’inferno, con su scritta l’epigrafe (come d’uso nelle città medievali) terrorizzante <<Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate>>

Dante e Virgilio  si apprestano dunque a varcare la porta infernale per entrare <<nella città dell’etterno dolore>>, ma prima leggono, a ‘mo di sinistra epigrafe e ammonimento ,rafforzato da un’anafora irrevocabile di tre periodi, che da lì non si può più uscire una volta entrati, cioè una volta che si è morti senza essersi ricongiunti col Signore Iddio.

Essa “ci parla”. Fu Dio a crearla (<<l’alto fattore>>), il grande architetto, e prima di essa non fu realizzato nulla se non la materia e gli Angeli. Ma poi proprio a causa della ribellione di Lucifero, Dio dovette creare l’inferno, per scacciare esso con gli altri ribelli, insieme al coro degli angeli che non presero parte né con Dio né contro Dio (saranno questi i precursori storici e ideali degli ignavi dei vari “Don Abbondio”, che per paura, per pusillanimità o per mero interesse personale, decisero di non scegliere).

Apparentemente un piccolo peccato, per noi uomini liquidi moderni. Per Dante, invece è uno dei più gravi peccati, perché il non scegliere, o il cambiare casacca a secondo degli interessi, che poi è la stessa cosa di una mancanza di scelta, è il non giovarsi del dono più prezioso paterno (e quindi anche più meritevole di essere non solo custodito, ma attuato) del libero arbitrio. Così peculiare, perché è il gesto di un padre onnipotente, che autonomamente decide, per “Sommo Amore”, di dar fiducia alle sue creature, affinchè possano esprimere liberamente, ma anche meritarsi il Suo amore. Basterà seguire le regole che Egli ha dato e i suoi insegnamenti, così oltre che per paura di Giustizia, ma anche e soprattutto per disio di fare il bene, alla fine di una vita brevissima rispetto all’eternità, per ricongiungersi con Esso in Cielo basterà aver fiducia nel sommo padrone e quindi credere in sé stessi mediante l’uso dell’intelletto, della buona morale, della fede, così da morire beati, o comunque ricongiunti con la Luce che tutto illumina.

ignavi tormentati dagli insetti

Gli ignavi invece per pusillanimità, per debolezza del credere in loro stessi e quindi a Dio e alla sua opera provvidenziale, diriggono le loro azioni non assesecondando il principio informatore dell’etterno, ma la contingenza terrena, che costituisce nemmeno un puntino, rispetto a ciò che lì attende una volta conclusa la prima vita. Tuttavia per scarsa fede essi mettono sé stessi al primo posto e non il Padre Creatore, cercando di tutelare solo e soprattutto il loro contingente interesse, non prendendo a tal fine mai una posizione definita e stabile, dimenticando dunque quegli insegnamenti e quel senso di giustizia che ogni uomo ha in sé, per dirigere al bene le proprie azioni.

Gente così per il Dante morale non può dunque che essere punita severamente. In primo, saranno subito dimenticati dopo la morte. In secundo, non vedranno mai la luce e lo spettacolo celestiale del “Sommo Amore”, meritando invece la dannazione etterna, non accettati però nemmeno nella casa infernale, come ospiti sgraditi che passeranno l’eternità in un vestibolo orrendo, fosco e puzzolente, posto prima dell’Acheronte, disdegnati sia da Dio che dall’Inferno.

Essi in compenso però subiranno i tormentii di fastidiosi tafani, rappresentazione visiva dell’agitazione interiore, che già provarono in vita, quando portati di qua e di là dall’ansietà della loro sicurezza e del loro tornaconto, e punti sempre, senza pace e senza amici dalle circostanze o da chi li vuole portare di qua o di là, sono condannati ad inseguire instancabilmente un vessillo, simbolo di quella idea, o di quelle fazioni, che in vita cambiarono sempre, in virtù del proprio tornaconto, o meglio per mancanza di una veritade interiorie più forte, capace di farli trascendere da questa condizione posta in contraddizione con Dio.

Gli ignavi che corrono dietro al vessillo che si muove senza pace

Naturalmente il più famoso esponente di questa masnada di sub-dannati è Papa Celestino, che fece il famosissimo gran rifiuto, spogliandosi del panno pontificio perché non avvezzo, a suo dire, a quella vita. Dante invece imputa a quella scelta sciagurata ragioni di viltà e pusallanimità, con l’aggravante che deludendo le aspettative di tutti coloro che avevano fatto affidamento su di lui per riformare la paccanimosa Chiesa, spalancò la strada al tanto odiato, da Dante, Bonifacio VIII, corruttore di quella Istituzione rappresentante del cielo che oramai si era fatta meretrice e ispiratrice di ogni nefandezza, più che di opera pedagogica.

Celestino V comunque è solo accennato e lo si può identificare proprio per il termine che Dante usò per descriverlo <<colui che fece il gran rifiuto>>, cioè la persona che disdegno il grandissimo onore di guidare la Chiesa di Dio, l’istituzione terrena più importante insieme all’Impero, che in connubio con esso avrebbe dovuto assicurare pace e armonia ad un’Italia humilis, sconvolta dalla corruzione morale e da guerre fratricide.

Celestino V

Non è un caso che Dante non si fermi a parlargli o che non lo identifichi, come invece farà con le altre ombre che via via incontrerà nel corso del suo viaggio. Infatti, Dante, drammaturgicamene coerente con i periodi precedenti, regala al Papa dei pochi mesi, quell’oblio che gli ignavi meritano, e in qualche modo già in terra ricercarono (né lo nomina, nè gli rivolge una parola), perché di questi codardi, di questi vili, di questi pusillanimi, <<che mai non fur vivi>>, solo una cosa si può fare, come sentenzia la guida Virgilio: non curarsi di loro, ma guardare e passare. Appunto, come se nemmeno esistessero, o fossero mai vissuti (almeno nel senso alto del termine).

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